Cinecult: E’ solo la fine del mondo di Xavier Dolan

Quando l’attrice Anne Dorval lo presentò all’attore e regista Xavier Dolan, reduce dal successo di ‘J’ai tué ma mère’, Dolan aveva accolto con incredulità e scetticismo il copione di ‘E’ solo la fine del mondo’(Juste la fin du monde), testo di una pièce teatrale del 1990 di Jean-Luc Lagarce. Ma reduce dalle fatiche del suo capolavoro ‘Mommy’ il cineasta francese, ormai osannato dalla critica e dal pubblico internazionale anche per film come ‘Laurence Anyways’ e ‘Tom à la ferme’ ha riconsiderato la sua decisione di non affrontare quella pièce e ha scelto di dirigere e trasporre per il cinema l’opera traendone un film ad altissimo impatto emotivo distribuito in Italia da Lucky Red. Il film, che ha valso a Dolan il Gran Premio della Giuria conferitogli nell’ambito dell’ultimo festival di Cannes, è un dramma sui conflitti famigliari che hanno impedito al giovane Louis (Gaspard Ulliel) scrittore di successo, di confrontarsi con i suoi parenti più stretti per ben dodici anni. La sua omosessualità e ora la sua malattia che tornato in famiglia Louis intende rivelare alla fine di un pranzo, sono solo il pretesto per rivivere nostalgie e rimpianti viscerali che ancora lo legano alla sua vecchia casa, al fratello Antoine (un grandioso Vincent Cassel) complessato e nevrotico, e alla fragile sorella Suzanne (Léa Seydoux) che il protagonista quasi non ha visto crescere. Forte e cerebrale il rapporto con la madre, interpretata da una pirotecnica Nathalie Baye: il film si dipana in una serie di dialoghi e di primi piani serrati che non danno tregua allo spettatore che percepisce la tensione latente come una lama affilata di coltello. I personaggi fra i quali la confusa cognata di Louis Catherine (una Marion Cotillard in stato di grazia) vivono ciascuno in un isolamento fatto di fragilità, rimpianti e incomunicabilità, ciascuno segregato in un muro di gomma che impedisce alle emozioni di esternarsi nella maniera più giusta per costruire un circolo di affetti sano e armonioso nel senso più pieno. Fra ipocrisia borghese e riscatto psicologico il film è un’eccellente prova attoriale e di regia in cui Dolan sembra aver superato sé stesso con una maggiore eleganza espressiva, una maturità artistica e un’asciuttezza che non precludono ma anzi valorizzano la drammaticità e il disagio esistenziale quasi bergmaniano del protagonista. Da vedere.

@Riproduzione Riservata

FacebookLinkedInTwitterPinterest

© Riproduzione riservata